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La falange

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Una formazione serrata, compatta, disciplinata. Un muro di bronzo inespressivo e minaccioso che con passi pesanti e cadenzati si avvicina inesorabilmente allo scontro frontale. Una formazione che sembra un sol uomo e che agisce come tale, è la temibile falange.

 

L’evoluzione della falange

A partire dall’VIII secolo a.C. il soldato greco smise di combattere ingaggiando duelli a singolar tenzone con il diretto avversario come avvenne in epoca micenea, esempi famosissimi furono i duelli tra gli eroi omerici contenuti nell’Iliade. Infatti si diffusero i combattimenti per file in cui l’oplita occupava una determinata posizione nella falange, ovvero nella “formazione da battaglia”.

Nel VII secolo a.C. secondo il poeta spartano Tirteo, questo rivoluzionario modo di combattere si perfezionò, mutando per necessità persino la panoplia di base dell’oplita greco per massimizzare l’efficacia della falange e soprattutto per spingere i soldati a non abbandonare la formazione (nel dettaglio in questo articolo si vedrà l’equipaggiamento dell’oplita). Fino alla guerra del Peloponneso lo scontro non prevedeva manovre d’aggiramento da parte di una determinata ala, né tantomeno l’impiego di fanteria leggera o cavalleria. Con il passare dei secoli anche la tattica della falange fu migliorata, precisamente nel IV secolo a.C. prima dai tebani e poi dai macedoni.

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Nello stesso secolo si diffuse la pratica, da parte dei sovrani dei Paesi che si affacciano sul bacino mediterraneo, di assoldare come mercenari queste uniche formazioni costituite da uomini rivestiti di bronzo. Tra i primi ad avvalersi della falange oplitica fu il faraone Psammetico I che se ne servì per rinforzare il suo esercito in un momento delicato del suo lungo regno.

 

Le caratteristiche

Per gli eserciti greci la spina dorsale era costituita dall’oplita inquadrato in una formazione a falange, la cui forza dipendeva dalla coesione delle singole unità che l’animavano. Più gli opliti erano disciplinati, saldi e in sintonia di passo tra loro più risultava compatta, omogenea ed efficace la falange.

Lo schieramento preso in esame prevedeva una disposizione ordinata e per file dei soldati, che permetteva agli stessi di prendere rapidamente il posto dei caduti e di imprimere, al momento dell’attacco, una forza d’impatto notevole. Un’onda d’urto prodotta da veementi spinte che come un effetto domino, partivano dagli opliti in ultima fila fino ad arrivare alla prima fila che cozzava fragorosamente con la corrispettiva nemica (proprio per questo i soldati migliori ed esperti furono sempre schierati nelle ultime e nelle prime file).

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Inoltre, nella composizione di una falange profonda 8 fila (ma nel corso della storia furono variabili), le prime e le ultime risultarono le dirette responsabili per ottenere una buona coesione sia nella marcia sia in battaglia, infatti si era soliti schierare in quelle sezioni nevralgiche della formazione i soldati migliori. In più essendo una formazione che fondava la sua forza nella coesione tra i commilitoni, questi avrebbero potuto scegliere gli uomini che li seguivano per sentirsi più sicuri nel momento dello scontro (la migliore espressione di questa abitudine è da ricercare nel Battaglione Sacro tebano).

Tra le tutte le pòleis però ve ne fu una che espresse al meglio questa tattica militare: Sparta. Prima di parlare nello specifico della falange spartana, che tatticamente sul campo di battaglia si comportava identicamente a quella delle altre pòleis, è doveroso sottolineare gli svantaggi endemici della stessa.

Le difficoltà prima di uno scontro

I movimenti della falange erano piuttosto lenti e limitati, a causa: in primis della pesante panoplia del soldato che, nel VII secolo a.C. era ancora completamente in bronzo; e in secundis della difficoltà di controllo della coesione. Proprio nella coesione della formazione si riscontrava la maggiore difficoltà nell’attuare la falange, poiché l’atletismo, l’età, la forza e la sintonia erano diverse da oplita a oplita, il quale non era altro che un cittadino armato, per difendere la propria pòlis, con un proprio lavoro (a differenza degli spartiati che nella vita si occupavano solamente dell’aspetto militare).

Sempre in riferimento alla coesione va appuntata anche la naturale facilità con la quale la falange si sfaldava in presenza di guadi, leggeri avvallamenti o piccole alture, trasformandosi in una formazione sfilacciata e disunita portando talvolta alla ritirata ancor prima dello scontro.

Qualora quanto detto non dovesse accadere ecco un’altra tendenza di questo peculiare schieramento greco: la marcia di una falange non era affatto rettilinea, infatti quest’ultima procedeva in maniera compatta verso destra arrivando occasionalmente ad evitare casualmente lo scontro. Questo poiché l’oplita greco, durante l’avanzata verso il nemico, vedendo che il suo hòplon copriva la sua parte sinistra e la destra del commilitone lasciando la sua parte destra scoperta, tendeva a “rifugiarsi” il più possibile verso lo scudo del compagno vicino, coprendo il più possibile la destra.

 

Lo scontro

I movimenti della falange erano scanditi da un suonatore di diaulòs (doppio flauto) che seguiva la compagine, fino a quando il dolce suono del flauto lasciava spazio alle squillanti trombe, indice dell’imminente scontro con il nemico. La musica si fermava solo quando l’armata giungeva a ridosso del nemico, lasciando spazio alle esortazioni ed istruzioni finali degli ufficiali. Un ultimo segnale di trombe veniva dato, ad una distanza approssimativa di 200 metri dall’avversario, poco prima dell’assalto (epìdromos) che lanciava adesso di corsa gli opliti, ad una velocità di circa 8 km/h, con la lancia (dòry) in posizione d’attacco.

L’epìdromos doveva essere lanciato al momento giusto per garantire alla falange il giusto abbrivio, nel caso in cui avvenisse prima del nemico, ottenendo maggiore forza durante la fase di spinta (othismòs), infatti non doveva essere effettuato troppo presto provocando subito stanchezza nei propri effettivi né troppo tardi.

Lo scontro era sancito dal tremendo impatto delle due compagini causato dal rombo assordante dagli hòplon che cozzano e dagli affondi delle lance e dal frantumarsi di quest’ultime. La battaglia si risolveva in una fortissima pressione tra le prime fila delle falangi venute a contatto, spinte fisicamente dal resto della formazione verso lo schieramento opposto. In questo frangente le ultime fila avevano il cruciale compito di mantenere quanto più possibile coesa la falange e continuare ad esercitare pressione sulla formazione nemica.

Tra opliti si svolgeva un combattimento statico che prevedeva affondi nel tentativo di colpire l’avversario, tenendo sempre in grande attenzione la sua posizione nella falange, con la propria lancia nelle parti meno protette, quali cosce, inguine e gola. La caduta di più soldati in un determinato settore (o più) o la stanchezza di questi poteva causare dei varchi nella formazione, all’interno dei quali potevano imperversare gli opliti avversari sancendo la rotta della falange disunita, l’abbandono del campo di battaglia e la conseguente sconfitta di fatto.

Solitamente, prima della guerra del Peloponneso, le battaglie tra falangi erano molto dure e cruente ma con un tasso di mortalità non elevato, soprattutto nel vivo dello scontro. La maggior parte delle perdite avveniva quando una delle due formazioni perdeva la coesione ritirandosi, anche se l’inseguimento non era previsto a causa dell’assenza di unità leggere e di cavalleria.

La sconfitta vera e propria era sancita soltanto quando l’armata battuta sul campo mandava un araldo ai vincitori per stabilire una tregua, che permetteva la restituzione dei commilitoni caduti. Prima della restituzione, i vincitori avevano il diritto di spogliare i cadaveri nemici sottraendone armi ed effetti personali quali gioielleria. Con le armi veniva eretto un cumulo detto trofeo (tròpaion) nel punto decisivo della battaglia.

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